È passato ormai un secolo dall’istituzione, in Italia, della Giornata internazionale della donna, che si tenne per la prima volta, su iniziativa del Partito Comunista, il 12 marzo del 1922.
Le origini della ricorrenza sono un po’ confuse: nel dopoguerra l’evento fu collegato al tragico incendio di una fabbrica di camicie di New York in cui, l’8 marzo del 1908, persero la vita 134 donne, segregate in azienda dai proprietari in risposta allo sciopero indetto per rivendicare migliori condizioni di lavoro. Altri, invece, sostengono che l’incendio accadde, sì, ma il 25 marzo 1911 nella fabbrica newyorchese Triangle. Alcuni invece, collegano la celebrazione alla manifestazione che le donne tennero a San Pietroburgo l’8 marzo del 1917, per chiedere la fine della guerra.
Poco importa andare a verificare quale sia la reale origine: da tempo sappiamo che, ogni anno, l’8 marzo è stata istituita la celebrazione ufficiale di una giornata dedicata alle donne.
Eppure il gentil sesso, nonostante questa ricorrenza, continua ad essere oggetto di trattamenti che poco hanno a che vedere con i festeggiamenti. Nel mondo sono ancora troppe le donne vittime di abusi sessuali, vessazioni sul posto di lavoro, umiliazioni, torture e soprusi di ogni genere.
Nascere donna, in alcune parti del planisfero, equivale ad essere considerate fin dal primo giorno di vita esseri inferiori.
Per noi donne emancipate del mondo occidentale è più difficile capirlo, perché non proviamo sulla nostra pelle le restrizioni cui sono soggette altre nostre simili.
Pensiamo alle donne afghane, ad esempio: private dei diritti civili conquistati faticosamente nel tempo, con la nuova occupazione talebana giunta dopo il ritiro delle truppe occidentali si sono viste vietare l’istruzione e la possibilità di lavorare nel settore pubblico. Sono stati loro proibiti gli spostamenti su strada se non in compagnia di un parente di sesso maschile. Vengono costrette ad indossare lo hijab, il velo islamico che copre il loro volto ed il loro corpo, non possono nemmeno più curare la loro igiene personale negli hammam, abitudine che oggi viene tacciata di presunta immoralità.
Queste donne hanno un solo destino: obbedire ai loro mariti, che le considerano alla stregua di vere e proprie schiave. Praticare sport, ascoltare liberamente musica, vestirsi a piacimento, sono tutte attività che alle donne afghane sono vietate. E in questi contesti l’attivismo femminile, quando prova a farsi sentire, viene stoppato sul nascere: chi osa sfidare l’Islam rischia di essere ucciso.
Anche le donne che arrivano dall’est europeo non se la passano meglio: spesso arrivano in Italia con la promessa di un’occupazione stabile, salvo poi finire sul marciapiede, sfruttate dai loro protettori, percosse, minacciate. Oppure vengono ad occuparsi dei nostri malati e dei nostri anziani: alcune di loro le incontriamo tutti i giorni, sono le badanti o le tate dei bambini che vediamo nei nostri parchi cittadini. Sono madri, donne con famiglie che hanno lasciato in patria: sono venute qui per farsi carico delle nostre, cui noi non possiamo o vogliamo badare.
Negli ultimi tempi viviamo lo strazio delle donne ucraine, costrette a far fagotto cercando di mettere in salvo i loro cari spostandosi altrove, mentre figli e mariti restano in patria a contrastare l’avanzata russa. Anche in Russia ci sono donne impotenti, che non possono scegliere il loro destino e devono adattarsi a quello che qualcun altro ha deciso per loro. Qualcuno ha smembrato le loro famiglie, imponendo agli uomini di casa di imbracciare le armi e scendere in campo per far valere le ragioni di uno scriteriato assetato di sangue.
Questi sono i casi più evidenti, ma in ciascun angolo del mondo si nasconde una donna che ha bisogno del nostro aiuto. Magari è la nostra vicina di casa, oppressa da un marito violento. O la nostra collega, desiderosa di attenzioni e rispetto da figli che non la amano come dovrebbero. Oppure è una nonnina rinchiusa in una residenza per anziani, parcheggiata lì da una famiglia che la vive come un ingombro e non come uno scrigno di ricordi affievoliti dal trascorrere del tempo.
Nella Divina Commedia Dante costellava il suo Paradiso di figure femminili, esaltandone la bellezza. Quanti pittori, scultori, poeti, hanno magnificato nel tempo le mille virtù di ogni donna?
Oggi corpi sinuosi, occhi scintillanti, bocche socchiuse con malizia, sono la rappresentazione paradisiaca della femminilità che ci viene offerta dai media e dagli spot pubblicitari. Purtroppo, questa è la patina promozionale che nasconde la realtà di molte altre donne, quelle che non hanno diritto al paradiso. Quelle che, nel terzo millennio, vivono ancora ogni giorno dentro un vero e proprio inferno. Un inferno che è più comodo ignorare per gli altri 364 giorni dell’anno, lavandosi la coscienza ogni 8 marzo con un rametto di mimosa consegnato con un augurio sorridente.
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