Quando splende il sole, ogni occasione è buona per stare all'aperto.
Pentolaapressione
Non è un blog di cucina
pentola a pressione
domenica 28 aprile 2024
LA GRANDE SAGGEZZA DI CRISTINA MITTERMEIER: QUANDO IL BELLO CHE CI CIRCONDA E' "ABBASTANZA"
domenica 21 aprile 2024
L'ADRENALINA DELL'ANIMALE SELVAGGIO MESCOLATA ALLA QUOTIDIANITA' NEL NUOVO THRILLER DI DICKER
Ci sono libri che sono l'equivalente di una droga.
Creano dipendenza, occhieggiano dal piano dove li hai riposti temporaneamente e sembrano quasi chiamarti a gran voce per farti proseguire la lettura. Non riesci a resistere loro. Quasi ti senti in dovere di giustificarti quando pensi "ne leggo solo un altro paio di pagine" e poi ti ritrovi a notte fonda a voler proseguire, perchè sei stato inghiottito dalla spirale della curiosità che ti avvinghia senza tregua.
"Un animale selvaggio", l'ultima opera di Joël Dicker, edito da La Nave di Teseo, entra a pieno titolo nel novero dei libri che stregano il lettore fin dalle prime righe.
Ho letto 5 dei 7 libri pubblicati dall'autore e tutti mi hanno lasciato un senso di soddisfazione indescrivibile. La sua maestria nel tessere una trama intrigante è indiscussa e i tre premi conquistati tra il 2010 e il 2012 (Prix des écrivains genevois, Grand prix du roman de l'Académie Francaise e Prix Goncourt des Lycéens) sono ampiamente meritati.
Dicker affascina, ammalia, stupisce con colpi di teatro e, caratteristica non troppo comune, non è mai scontato. Pagina dopo pagina la suspense cresce, alimentata dalla scoperta di alcuni segreti che si rivelano poco per volta, quasi fossero centellinati proprio per sedurre il lettore lentamente.
L'autore ha un'abilità descrittiva stupefacente (forse per questo ho parlato di droga nell'esordio di questo post?), tanto che, durante un sopralluogo nel bosco di uno dei protagonisti di questo volume, mi sono talmente immedesimata in lui che mi sembrava quasi di sentire le foglie a terra crepitare sotto i miei passi. Non esagero, in alcune pagine mi sono sentita davvero al fianco di Greg, il poliziotto che abita a pochi passi dalla coppia da cui è ossessionato. Ho temuto venisse colto in flagrante, ucciso o chissà che. Mi stava a cuore la sua incolumità, perché sapevo che mi avrebbe fatto buona compagnia nella ricerca della verità.
Sono quattro i protagonisti principali di questa avvincente opera: i coniugi Braun, Sophie e Arpad, che vivono con i loro due figli in una lussuosa villa di vetro al limitare del bosco ed i loro vicini Greg e Karine, anch'essi con prole al seguito. I Braun sono perfetti: belli, felici, ricchi e innamorati. Greg e la moglie sono meno intriganti: conducono una vita normale, hanno momenti di screzio come accade a tutte le coppie e sono molto incuriositi dall'altra coppia che rasenta la perfezione.
Come spesso accade, tuttavia, nulla è come sembra. Alla soglia dei 40 anni di Sophie, il castello di carta su cui è costruita l'esistenza dei coniugi Braun sta per crollare, rivelando un mondo di menzogne, inganni e tradimenti che sembra ingigantirsi ogni giorno di più.
Cosa nasconde davvero Sophie? Perchè Arpad ha mentito alla moglie? Riuscirà Greg a scrollarsi di dosso l'ossessione per quella vicina talmente affascinante che ha iniziato a spiare ogni volta che gli è possibile? Chi ha commesso una serie di rapine?
Smettetela di farvi domande: leggete il libro ed avrete tutte le risposte che cercate. E soprattutto, vi renderete presto conto che tutto ciò che ai vostri occhi appare perfetto, nasconde in realtà delle sfumature torbide.
Non voglio sbilanciarmi troppo nel rivelare preziosi dettagli, ma vi lascio un indizio. Pensate al fascino della pantera; ammaliante, intrigante, sensuale, ma pronta a gettarsi sulla preda con un agile balzo. Un proverbio africano dice che la pantera ha le sue macchie fuori, l'uomo invece dentro.
Ecco: Dicker, in quest'opera mozzafiato, vi svelerà tutta la sporcizia umana. E quello che vi sembrerà strano, è che sarete felici di esserne messi a conoscenza.
domenica 14 aprile 2024
CUORE NASCOSTO, L'EMPATIA TRA DONNE NARRATA ALLA PERFEZIONE DA UN UOMO
domenica 24 marzo 2024
LA LEGGEREZZA DELLE FARFALLE, UN BEL LIBRO SULL' AMICIZIA GIOVANILE
L’ultimo libro di Fabio Geda che ho letto, edito da Einaudi, si intitola “La scomparsa delle farfalle”. Anche se nel romanzo c’è un episodio che, a distanza di anni, racconta davvero della scomparsa di un buon numero di lepidotteri da una serra in un giardino, sono convinta che l’autore, scegliendo il titolo, abbia invece pensato non al fatto in sé, bensì ad un'altra caratteristica delle farfalle. Ovvero, quella leggiadria un po’ magica che appartiene alla nostra adolescenza.
La trama vede protagonisti quattro ragazzi: Anna, Andrea, Cora e Valerio, che non sono solo semplici compagni di scuola, ma anche personaggi legati da una profonda amicizia.
Oltre che ogni mattina in classe, si ritrovano anche il pomeriggio, dandosi appuntamento nel negozio di un anziano rigattiere, il signor Azeglio, che ha una bottega nei vicoli di Torino. Azeglio supporta come può il gruppo, accogliendolo nella sua realtà lavorativa, raccontando ai ragazzi aneddoti legati alla sua esperienza e respirando vita dalle loro parole.
Gli anni passano tra entusiasmo giovanile, problematiche più o meno accennate ed anche un incidente che vede protagonista Anna, che reagisce in maniera piuttosto seria alle imposizioni del padre. Gli amici in quell’occasione le faranno scudo intorno, difendendola da chi la giudica e bullizza. Anche Azeglio darà un fattivo supporto in tal senso.
Non rivelo nulla di più per non rovinarvi la sorpresa, ma il libro ci porta davvero indietro nella nostra adolescenza. Chi di noi non ha avuto un gruppo di amici fedelissimi, con i quali era solito passare le giornate? Una cerchia ristretta con cui condividere confidenze, piccole marachelle, dal quale era sempre difficile separarsi? Ecco, io credo che la scomparsa cui allude l’autore sia quella della leggerezza di quell'epoca. Un'assenza che ci ritorna alla mente quando rivanghiamo nel passato, ma se ne sta lì buona buona fino a che non andiamo a risvegliarla.
Perché la vita di ciascuno di noi è imprevedibile e può capitare che ci metta davanti a scelte e momenti di tristezza che non avevamo messo in conto. Il libro è permeato da una continua nostalgia, ma non infonde cupezza. Crescendo, i quattro ragazzi si allontaneranno, salvo poi ritrovarsi nel momento in cui Andrea verrà travolto da una frana. Un fiume di fango alla cui impetuosità cercherà di sottrarsi, ancorandosi alla vita proprio facendo appiglio ai ricordi della vecchia amicizia.
Pur non frequentandosi più con la stessa assiduità di un tempo, venuti a sapere del disastro, Cora, Valerio e Anna andranno di corsa sul posto a sollecitare le ricerche, convinti che il loro amico, più chiuso e “selvaggio” di loro, sia da qualche parte sul versante montano in attesa di essere salvato.
Il loro intervento si rivelerà opportuno e i quattro si ritroveranno in ospedale, al capezzale di Andrea, pronti a rivangare i bei tempi e riallacciare il presente. Perché la leggerezza del periodo giovanile forse passa, ma i ricordi restano indelebili a restituirci, anche a distanza di tempo, la profondità di un legame d’amicizia che niente e nessuno può recidere. Un legame che in questo volume, come già aveva fatto in altri romanzi, Fabio Geda ha ancora una volta raccontato magistralmente, mostrandoci la veridicità del famoso detto "gli amici si vedono nel momento del bisogno".
UNA SALITA AL MONTE BIANCO, AD UN PASSO DALLE NUVOLE
La salita al Monte Bianco è senza dubbio un'esperienza entusiasmante e indimenticabile.
Non serve essere particolarmente preparati a livello atletico, perché per toccare il cielo con un dito basta salire sullo SkyWay, l’impianto di risalita che conduce fino ai 3466 metri di Punta Helbronner.
La base per l’ascesa è vicina a Courmayeur, ad un tiro di schioppo da Entreves, piacevole borgo di casette in puro stile di montagna, dove ho soggiornato nel week-end (spezzo una lancia in favore dell’hotel Pilier D'Angle che è davvero una piccola bomboniera, con tanto di Spa, dove si gode di una vista stupenda).
Si parte da qui... |
I biglietti si possono prenotare on line, acquistare in loco o direttamente in albergo. La salita si articola in due tappe e permette di osservare la vallata dall’alto, percorrendo la distanza tra i 1300 mt della base e i 3466 mt della vetta a bordo di un impianto a fune che sembra un incrocio tra una navicella spaziale e un gigantesco bollitore per il the. Durante la salita e la discesa la cabina, della capienza di 75 persone oltre al manovratore, ruota di 360 gradi, senza precludere nulla alla vista dell’affascinato passeggero. Non ci sono posti di serie A e serie B, si vede tutto benissimo ovunque ci si trovi.
A metà del viaggio, si arriva ad una prima stazione dalla quale si cambia mezzo.
Volendo ci si può anche fermare al passaggio intermedio, ma noi abbiamo preferito raggiungere prima la cima, Punta Helbronner, a quota 3466 mt e ridiscendere poi in un secondo tempo alla stazione più bassa, Pavillon, ad un'altitudine di 2173. In quota il freddo è pungente, l’aria sferza il viso e anche solo togliere un guanto per scattare una foto mette a dura prova la resistenza di chi, come me, ama il freddo.
Stalagtiti e raffiche gelide la fanno da padrone: noi siamo saliti intorno a mezzogiorno e, nonostante la piena giornata di sole, siamo stati accolti da una temperatura di -7 gradi, che diventano -13 percepiti.
La maestosità delle cime montuose lascia davvero senza fiato: l’occhio si perde sul Dente del Gigante, sull'Aiguille Verte, Aiguille de Rochefort, Grandes Jorasses, fino a raggiungere sullo sfondo il Monte Rosa. Innumerevoli vette conquistate nel corso degli anni da intrepidi scalatori, ammantate da un bianco sfolgorante che rende impossibile osservarle senza occhiali da sole. Si respira bene, non ci sono rumori se non quelli della natura. Anche i turisti sembrano particolarmente rispettosi della quiete: non si sentono squilli di cellulari, nessuno alza la voce. A me l’altitudine, oltre ad un leggero stordimento, ha lasciato il segno sul dispositivo fit bit che indossavo al polso, andato in tilt senza possibilità alcuna di recuperarlo. Guasto per sempre, ma nonostante il piccolo disagio ne è valsa la pena.
In virtù del gelo si ripara presto all’interno, dove sono disponibili un bistrot ed un ristorante (dove si mangia benissimo) e addirittura una libreria Feltrinelli (chissà se i libri acquistati in quota sono ancora più belli? Non ho approfittato dell’occasione, benché sia una fanatica della lettura).
Polenta e vino bianco |
In cima si può restare per un’ora e mezza (ma fuori non resisterete a lungo, ve lo assicuro), tempo nel quale potrete anche approfittare della visita al rifugio Torino, posto a 3.375 metri e raggiungibile con un ascensore che percorre 100 metri nel cuore della montagna e conduce all'attraversamento di un freddo cunicolo in pietra prima di sbucare all’esterno.
Il cunicolo che conduce al rifugio Torino |
Al Pavillon, oltre a un'ampia area esterna dove passeggiare e una terrazza soleggiata dove ritemprare stomaco e mente, ci sono anche una serie di mostre: una riguarda la vinificazione locale con l’invecchiamento delle bottiglie nella neve, l’altra è un video che ripercorre la creazione della risalita, l’ultima racconta il sogno di Secondino Totino Lora,
Per realizzare lo SkyWay ci sono voluti 1521 giorni, 4 anni, 16 stagioni. Iniziato nel 2011, è stato concluso nel 2015. Quello che sembrava inarrivabile, una sorta di follia, è divenuto realtà. La montagna è stata pensata in verticale, con una fune che collega tutti al cielo. Ci sono molte immagini fotografiche che documentano i lavori e anch'esse lasciano con il fiato sospeso, pensando a chi, in un ambiente dove l'aria è rarefatta, ha lavorato appeso ad imbragature per realizzare ciò che ora permette a noi di godere di una simile esperienza.
Prima di questa impresa del terzo millennio ci aveva già pensato l’ingegnere Dino Lora Totino, di Pray, nel Biellese, a creare un primo collegamento, fino al rifugio Torino. Figlio di una famiglia di tessitori, Dino ai filati preferiva la fune d’acciaio. Il cantiere era stato aperto nel 1941, ma l’avvento della seconda guerra mondiale aveva rallentato l’opera, conclusa nel 1946 e inaugurata nel 1947. Fino a quel momento per raggiungere il rifugio Torino si impiegavano 7 ore: grazie alla sua visione futurista, invece, la salita veniva completata in pochi minuti.
La salita allo SkyWay è davvero emozionante: addirittura c’è chi decide di sposarsi in quota, ma anche chi scende a rotta di collo sci ai piedi, lungo sentieri fuoripista non segnalati, con un’imprudenza che a me fa rabbrividire. La cosa più intrepida che io ho scelto di fare è stato sedermi qualche secondo sullo sdraio esposto alle intemperie e schioccare un bacio a mio marito sul tetto più alto d'Italia.
Al termine di questa piacevole giornata, ho realizzato che quello che l'alpinista Emilio Comici affermava corrisponde davvero a realtà: “Sulla montagna sentiamo la gioia di vivere, la commozione di sentirci buoni e il sollievo di dimenticare le miserie terrene. Tutto questo perché siamo più vicini al cielo”.
Peccato che poi si debba ridiscendere. E. due giorni dopo la discesa, fare i conti con una tremenda influenza virale da cui sto rialzando la testa solo ora. Ma questa è un'altra storia, che con il Monte Bianco non c'entra....
sabato 17 febbraio 2024
L'AMORE, LA PAZZIA, LA MERAVIGLIA, NEL NUOVO CAPOLAVORO DI VIOLA ARDONE
Si può impazzire per il troppo amore? Sì.
Non sto parlando di un amore di coppia, ma di quello che lega una madre ed una figlia: un rapporto intenso, splendidamente narrato, come solo la penna e il cuore di Viola Ardone sanno fare, nel romanzo "Grande Meraviglia" edito da Einaudi.
venerdì 17 novembre 2023
LA VERA STORIA DI DIANA NYAD ORA DIVENTA UN FILM, CON DUE INTERPRETI ECCELSE
L’influenza non è mai una buona compagnia.
Tuttavia, se la febbre non è troppo alta, essere malati ti permette di fare piacevoli scoperte.
La prima è che stare a casa da soli, quando tutti i tuoi famigliari sono impegnati a scuola e al lavoro, non è niente male. Ti godi il silenzio, la pace e la libertà di orario.
La seconda è che, se la pesantezza di testa non ti consente di dedicarti alla tua passione preferita, ovvero la lettura, puoi fare una cosa che fai molto di rado, a meno che non sia in previsione qualche programma eccezionale: accendere la tv.
In questo modo, comodamente seduta sul divano, con copertina di pile addosso, ho scoperto l’esistenza di un film su Netflix che vale davvero la pena vedere. Si intitola “Nyad, oltre l’oceano” e ripercorre l’impresa (in realtà ben più di una) di Diana Nyad, atleta statunitense che aveva un sogno irrealizzato: nuotare ininterrottamente per 110 miglia, in Oceano aperto, da Cuba alla Florida.
Un’impresa incompiuta, che Nyad aveva già tentato da giovane, quando aveva solo 28 anni, gettando la spugna ben prima del traguardo.
Come tutti ben sappiamo, ciò che ci sfugge diventa sempre più ambito e così, una volta raggiunta l’età in cui uno dovrebbe iniziare a godersi la vita, Nyad soffia sulle candeline della sua 60ma torta di compleanno esprimendo il desiderio di portare a termine l’impresa già tentata in gioventù.
Non che nel resto della sua vita la donna fosse stata con le mani in mano: cercando sue notizie in rete ho scoperto che nel 1975, all’età di 26 anni, aveva già nuotato per 45 km intorno all’isola di Manhattan e 4 anni dopo si era spinta da North Bimini nelle Bahamas fino a Juno Beach in Florida, coprendo una distanza di 164 km. In aggiunta a ciò, Nyad, tuttora vivente, è detentrice del record di traversata Capri-Napoli.
Ma l’impresa narrata nel film è una sfida doppiamente impegnativa: quella di Diana contro le forze della natura, ovvero squali, meduse letali e meteo avverso, ma anche contro se stessa.
Nyad scenderà in acqua 5 volte prima di riuscire a coprire l’intera distanza, da L’Havana a Key West, potendo contare solamente sulle sue forze. Nell’ultimo tentativo riuscirà finalmente a percorrere 177 km senza sosta, bracciata dopo bracciata, alimentata ogni ora e mezza con un sondino dalla barca che le viaggia a fianco. Dal natante, la donna sarà assistita da un team affiatato, nel quale si distingue per tenacia e motivazione l’amica del cuore Bonnie, interpretata nella trasposizione cinematografica da Jodie Foster, mentre a impersonare Nyad è stata scelta la figura di Annette Being.
Tutte e due le attrici, a mio avviso, meriterebbero un premio per la loro interpretazione, da cui traspaiono caparbietà ma anche un forte senso di profonda amicizia.
“Che cosa pensi di fare della tua unica vita selvaggia e preziosa?” Legge Diana a Bonnie mentre, spinta dall’amica che le dice di cambiare le cose se non si trova a suo agio nella vita del momento, cerca la motivazione per intraprendere nuovamente l’impresa.
Dopo il fallimento in giovane età Diana si era infatti ritirata dal nuoto: troppo bruciante la sconfitta per proseguire nella pratica sportiva. Ma qualcosa continuava ad agitarla.
A Bonnie, che cerca di farla ragionare sull’impossibilità della riuscita dell’avventura 30 anni dopo, in primis per i limiti fisici, Diana risponde con fermezza: “Io non credo nelle limitazioni imposte: l’unica persona che deciderà se ho chiuso sono io. Lo so che tutti vogliono che io me ne stia con la bocca chiusa e seduta, aspettando di morire. Ma non posso”.
Sono molte le frasi motivanti di questa pellicola. Una su tutte, che mi è piaciuta molto, Diana l’ha appesa al muro della sua stanza. “Un diamante è un pezzo di carbone che non ha mollato”.
E così, per poter brillare come lei sa di poter fare, Diana sfiderà la morte, le allucinazioni, la fatica, gli imprevisti, con una grinta che pare impossibile anche solo immaginare che la donna abbia posseduto. D’altronde, nella sua firma, fin dalla nascita era scritto un destino: Nyad in greco significa ninfa dell’acqua e Diana è la dea della caccia. Grazia e potenza riunite, insomma.
Più che una dea, comunque, osservare Diana arrivare a Key West trascinando a fatica le gambe stanche mentre esce dall’acqua per venire accolta dall’abbraccio di Bonnie e del suo team mi ha ricordato un bambino che muove i primi passi incerti e sorride del suo trionfo, circondato da familiari plaudenti.
Nyad è la prova che, tra tutte le sfide, le migliori da vincere sono quelle con noi stessi, perché ci migliorano la vita. A qualsiasi età ciò accada. Perché non esiste un tempo per dire basta, fino a che non è il nostro cuore, con il suo ultimo battito, a decidere che sia giunto davvero lo stop.
sabato 7 ottobre 2023
LA FORMULA MORTALE, MA DI SUCCESSO, DI FRANCOIS MORLUPI
Non avrei mai conosciuto Francois Morlupi se non fossi stata chiamata, insieme a lui, a far parte della giuria del festival Giaveno Gialla dedicato - lo dice il nome stesso - ai racconti a sfondo crime.
Un incontro fortunato, quello con l'autore italo-francese, che mi ha permesso di trascorrere una piacevole serata e tornare a casa con una copia autografata del suo primo giallo, rivisto nella primavera 2023 rispetto alla pubblicazione originale del 2018, ma finito tra le mie mani per la prima volta.
Ho amato Formule mortali, edito da Salani, fin dalle prime pagine, per varie ragioni: in primis per la capacità dell'autore di tenere il lettore sempre sulle spine, invogliandolo alla lettura pagina dopo pagina, alternando dettagli tipici delle indagini delle forze dell'ordine a risvolti umani dei protagonisti della vicenda.
Tutto ha inizio dal ritrovamento di una mano mozzata ad opera di un anziano che, in un torrido giorno estivo si addentra a passeggiare in un parco del quartiere Monteverde di Roma. A breve distanza, altri arti amputati della vittima verranno rinvenuti sul terreno, dove sono stati disposti per riprodurre, in una sorta di macabro disegno, una nota formula fisica. La trama è ben costruita, i personaggi della squadra investigativa sono molto differenti tra loro, ma il commissario Ansaldi riesce a radunarli intorno a se stesso spronando ognuno di loro, ciascuno con le proprie peculiarità, a dare il massimo per risolvere i casi che via via tingono di sangue la città di Roma.
Il macabro rinvenimento è il primo di una serie di efferati delitti, che si lasciano appresso una scia di terrore. La morte è una sorta di liberazione per le vittime, che vengono torturate sadicamente. Un particolare le accomuna: sono tutti docenti, anche se di materie diverse. Sembra quasi che l'assassino (o gli assassini) le sbeffeggino, lasciando vicino ai loro cadaveri torturati una sorta di firma che ha a che vedere con la materia che insegnavano quando erano in vita. Ansaldi non è un eroe: ne apprendiamo la fragilità quando sprofonda nell'ansia ed è vittima di attacchi di panico. Per il suo bene fisico non dovrebbe occuparsi di casi simili, ma accantona le preoccupazioni per la sua salute perchè ha uno spiccato senso del dovere che antepone a tutto. Insieme ai suoi 4 fidi agenti, profondamente diversi tra di loro ma uniti oltre l'inverosimile quando si tratta di fare squadra, batte ogni angolo della capitale - e si spinge infine fino alla Corsica - nel tentativo di dipanare l'intricata matassa.
Il lieto fine in questo libro c'è, perchè il caso sarà risolto. Ma la tragedia lascerà il segno tra i 5 di Monteverde. Morlupi ha vinto numerosi riconoscimenti, oltre al premio Scerbanenco assegnatogli per due anni consecutivi dalla platea di lettori. Anche voi, dopo aver letto questo libro capirete perchè così tante persone l'abbiano acclamato,
Io non credo sia il caso di commentare ulteriormente l'eccezionalità di questo giallo, che il Corriere della Sera ha definito noir di intrattenimento atipico e brillante. Ma ritengo azzeccatissimo il consiglio del Messaggero, scritto sulla quarta di copertina: "Se cercate un buon giallo, eccolo!".
mercoledì 16 agosto 2023
UBUNTU, SENZA NESSUN PREGIUDIZIO
Valgioie esiste davvero, è un piccolo paese montano della Val Sangone. Un luogo di pace, immerso nel verde, dove tutti si conoscono. La sua tranquillità viene stravolta dall'arrivo, in un giorno di neve, di un bus con 50 migranti richiedenti asilo.
Valgioie potrebbe essere ovunque, perché l'arrivo di un carico di "maschi stranieri ", per di più di pelle nera, in qualsasi parte del mondo, potrebbe destare preoccupazione.
Saranno cattivi? Selvaggi? Stupreranno le nostre donne? Ruberanno? Scombussoleranno la nostra tranquilla vita provinciale al punto che non potremo più lasciare liberi i bambini in sicurezza?
Sono tante le domande che preoccupano i residenti. Il doppiogioco del sindaco, che in pubblico si dice contrario alla scelta impostagli da altri di sistemare i migranti nell'ex albergo da anni in disuso ma nel frattempo trama nell' ombra con una cooperativa per lucrare sull'arrivo di queste persone, di certo non aiuta a placare gli animi di chi vede il rischio ovunque.
Invece, dopo alcuni mesi dal loro arrivo, queste persone si dimostreranno ben integrate nella comunità. A cercare di ridurre al minimo gli ostacoli linguistici e culturali che i residenti razzisti vorrebbero cavalcare per respingere gli "invasori" contribuisce Nadia, la nipote del sindaco, (nonché figlia del suo vice, più razzista di molti suoi cittadini).
Fino all'altro ieri maestra della scuola locale, improvvisamente Nadia vince il concorso appositamente indetto e viene promossa (con uno stipendio decisamente piu elevato) al ruolo di educatrice di queste persone.
Anche lei, inizialmente scettica, si calerà nella parte storcendo il naso. Ma, strada facendo, scoprirà la bontà d'animo di queste persone.
Per uno spiacevole equivoco, sul finire del libro in paese si scatenerà un vero e proprio caos, ulteriormente ingigantito da giornalisti senza scrupoli che gridano allo scoop senza nemmeno provare ad indagare per capire realmente l'accaduto.
Elisa Bevilacqua è una valida scrittrice, con un curriculum giornalistico non indifferente: avevo già letto altre sue opere e ne ho apprezzato anche questo piacevole romanzo, ormai edito da un paio d'anni ma sempre attuale. Elisa ha costruito una trama intrigante mischiando sapientemente finzione e realtà, attingendo dai personaggi e dal territorio in cui ha vissuto per dare vita ad una storia dinamica e molto realistica. Piacevolissime le figure di Iole e Prassede, le due nonnine petulanti a cui nulla sfugge, ma ho trovato anche molto azzeccata la foto dell'autrice sul retro di copertina.
Penso in tal senso al paese che mi ha dato i natali, Sant'Ambrogio, in val di Susa, opposta a quella dove trova collocazione Valgioie. Fin dagli anni '70 Sant' Ambrogio ha accolto vientamiti, marocchini, in epoche più recenti famiglie ucraine, in fuga da miseria e guerra. Non ha mai chiuso le porte nemmeno alle numerose famiglie di veneti e calabresi, tanto per citare gli "stranieri" di casa che l'hanno scelta come nuova dimora, facendoci scoprire nuclei talvolta migliori di quelli residenti (e lo dico da figlia di piemontesi).
La nostra diffidenza verso il prossimo non è dettata solo dal diverso colore della pelle, ma anche da tradizioni, usi e costumi che ci sembrano così strani rspetto alla nostra consuetudine. E allora che fare? Ubuntu, cioè unità, rispetto e compassione. Perché solo così, senza pregiudizi, si scopre che ciò che vediamo come un problema, talvolta (purtroppo non sempre) può rivelarsi per quello che in effetti è: una risorsa.
Brava Elisa, io l'ho capito. Ora, però, lo dovresti spiegare anche a molti altri.
lunedì 22 maggio 2023
ENZO TORTORA, L'INCREDIBILE TRAFILA GIUDIZIARIA DEL RE DI PORTOBELLO
Tortora non fu
vittima di un errore. Fu facile accusarlo cambiando semplicemente una consonante: il reo si chiamava
Enzo Tortona ma, per un discorso di comodo, l’accusato divenne Enzo Tortora. Questo accadde grazie alla menzogna dei testimoni, con la complicità di toghe poco propense a cercare la verità. Tutta la vicenda è ben illustrata nel libro "Testa alta, e avanti”, edito da Mondadori per la collana Strade blu, di cui è autrice Gaia
Tortora, la secondogenita di Enzo, oggi affermata giornalista e vicedirettrice
del Tg La7.
Gaia aveva 14 anni quando arrestarono suo padre. Era il giorno del suo esame di terza media. “Sei l'ultima dei Tortora, una missione che io considero molto molto importante. Non gettarla via” le scriveva il papà dal carcere. Lui intendeva che lei fosse la più piccola erede, ma il fato ha voluto che restasse l’unica. Come il padre, anche Silvia, la sorella di Gaia, è morta a 59 anni, vinta da un male incurabile. Enzo aveva la stessa età della primogenita quando, 14 anni prima, si spense nella casa di Milano, sopraffatto da un tumore polmonare. Quanta gente si ammala perché la sua salute è minata da drammi che sconvolgono intere esistenze? Quanti, pur animati da grande spirito di vita e sete di giustizia, vengono fiaccati nel corpo e nello spirito da estenuanti lotte per far emergere la verità? La famiglia Tortora è stata gettata nel tritacarne mediatico senza sconti: essere definita “la figlia di un camorrista” mentre si attraversa la strada dinnanzi casa non è l’ambizione di nessuna adolescente. Così come vedere le immagini del proprio padre ammanettato mentre esce dal commissariato stretto tra due carabinieri è una scena che si potrebbe risparmiare ai famigliari già sconvolti dalla notizia dell'arresto.
Tutti hanno puntato il dito contro Enzo Tortora. Solo gli amici stretti e i più onesti uomini di spettacolo hanno capito subito che si trattasse di un equivoco. Gli altri hanno preferito dileggiare, prendere le distanze dalla famiglia e dall'imputato, accusandolo convinti di avere la verità in tasca. Atteggiamenti che continuano ad esistere anche al giorno d'oggi: "Ogni anno - scrive Gaia - in media sette persone sono giudicate colpevoli quando non lo sono e mille innocenti vengono ingiustamente sottoposti alla misura di custodia cautelare".
Con questo libro Gaia trasmette al lettore tutta la rabbia per le ingiustizie subite dalla sua famiglia, tra l'altro mai risarcita economicamente del danno patito. Ma lo scritto è anche testimonianza di un grande amore filiale, nemmeno per un attimo messo in dubbio dalle basse insinuazioni di camorristi ed esponenti della magistratura. Gaia non ha mai pensato che suo padre potesse essere colpevole. Fin dall’infanzia è stata abituata a tenere duro, a resistere. A nascondere le preoccupazioni dietro il sorriso. Negli anni ha avuto bisogno di numerose sedute di psicoterapia e talvolta si è chiesta se valesse la pena proseguire, come ha fatto sua sorella, una battaglia per dare voce a chi non l'aveva, pur mantenendo la fiducia nelle istituzioni.
In alcuni passaggi del libro mi
sono riconosciuta in lei: una delle sue principali ambizioni era quella di
lavorare in una redazione, anche solo per portare i caffè. Io anni fa, in
occasione della visita alla sede di un quotidiano torinese, dissi a mio
marito che mi sarebbe piaciuto respirare quell’aria anche solo come addetta allo svuotamento dei cestini della spazzatura. Ci sono persone che ambiscono al ruolo di giornalista tanto per fare; altre che sono motivate dalla brama di raccontare e divulgare storie, denunciare soprusi. Anche io, fin dall'adolescenza, ho sempre avuto il vizio di esternare i miei pensieri e le mie convinzioni. Con il senno di poi riconosco come questo atteggiamento da paladina della giustizia spesso non abbia giocato a mio vantaggio, facendomi diventare "scomoda" in alcuni contesti scolastici e lavorativi. Forse avrei dovuto giocare d'astuzia e usare la diplomazia, ma ormai è tardi per rimediare.
Nel caso di Gaia la competenza e la caparbietà l’hanno condotta dove è ora. Ma anche lei, come me, ogni tanto si chiede se abbia senso non abbassare la testa, resistere e pagare il prezzo di questa ostinazione, che talvolta ha ripercussioni su più fronti . "Le battaglie non si combattono di nascosto, bisogna metterci la faccia, accettare il rischio delle conseguenze. Dunque ogni volta parlo, perchè la libertà e l'onestà intellettuale non hanno prezzo".
Questa sua affermazione mi trova completamente d'accordo. Eppure, riconosco che non tutti abbiano la capacità di tradurre in parole il proprio dolore come ha fatto lei. Anche per questo sarebbe necessario che gli atteggiamenti persecutori, infondati e gratuiti, non avessero più a verificarsi. Perchè i danni sono permanenti e lasciano segni pesanti nelle vite degli imputati e delle loro famiglie. Qualcuno, come Gaia, ne riesce ad uscire a testa alta, andando avanti. Lei lo scrive a chiare lettere: "Nel dolore non ci sono obblighi, ma diritti. Il diritto a lasciarsi andare. Ad accasciarsi se stiamo male, a imbozzolarci se ne sentiamo il bisogno. A piangere, persino". Un'altra sua bella affermazione, una delle tante di questo volume.
"Non si può essere madri
di tutti". Gaia ha ragione, quando dice che non ci si può fare carico di troppe responsabilità perché si finisce per esplodere. Ma io credo che, nonostante le ingiustizie subite,
lei invece non avrebbe mai voluto essere la figlia di nessun altro che non fosse Enzo Tortora. Perchè è suo padre che le ha insegnato a alzare la testa con fierezza ed orgoglio, come ricorda il titolo di questo splendido libro.
Sicuramente, la vicenda che ha colpito la sua famiglia le ha insegnato ad avere cura del prossimo, trattandolo con la delicatezza che solo una persona ferita nel profondo può riservargli. "In fondo è tutto qui: essere attenti agli altri. Garbati, avrebbe detto mio padre. Di buonsenso, aggiungo io. Un atteggiamento che si può tenere solo se si smette di avere uno sguardo ombelicale, autoreferenziale, egoista e si sceglie di essere consapevoli di far parte di una comunità". Un atteggiamento che dovrebbe far parte della nostra quotidianità, ma spesso non lo è.
Quando, riabilitato dall'assoluzione, nel febbraio 1987 Enzo Tortora tornò per un breve periodo alla conduzione di Portobello, il programma che lo aveva reso famoso, esordì con una frase passata alla storia: "Dunque, dove eravamo rimasti?". Io non amo guardare indietro, non mi faccio facilmente cogliere dalla nostalgia. Però, a giudicare dal contesto della società attuale, mi pongo spesso preoccupata una domanda: "Come siamo arrivati fino a qui?".
A differenza di Gaia Tortora, ho difficoltà a darmi una risposta che sia plausibile, incoraggiante e mi dia da credere che, come afferma qualcuno, il meglio debba ancora venire. Però, nonostante tutto, anche io come lei voglio andare avanti a testa alta. E, se non incontrerò la speranza di un futuro migliore, avrò perlomeno mostrato l'orgoglio della rettitudine.