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Spettacolare cena per vista e gusto al Fulton by Jean-Georges |


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Spettacolare cena per vista e gusto al Fulton by Jean-Georges |
Tra le tante, forse, quella che mi ha fatto maggiormente riflettere è questa: "La vita è il cammino, non solo il punto d'arrivo".
Ruota intorno al Kanun, “Le camelie invernali”, libro di Ermal Meta (no, non è un caso di omonimia, l’autore è proprio il cantante di origini albanesi che abbiamo visto esibirsi sul palco di Sanremo), edito da La nave di Teseo.
Ermal ha scritto il suo romanzo affidando il ruolo di protagonista dell’opera a Lara, 25enne nata in Italia da genitori albanesi. Nel giugno del 2025 la giovane affronta un volo aereo diretta alla terra dei suoi avi, che non ha mai visitato.
Le manca un solo esame per concludere la scuola di giornalismo che sta frequentando: per superarlo, deve intervistare qualcuno. Lara non ha scelto un soggetto a caso, ma ha deciso di cimentarsi nell’intervista di una persona piuttosto difficile: un uomo che da 30 anni vive recluso nella sua abitazione, senza scambiare una parola con nessuno.
Aiutata dal cugino che vive in loco, Lara lo raggiunge presso la sua abitazione, dove una volta alla settimana, a turno, qualcuno gli porta al domicilio la spesa necessaria per vivere.
Quest’uomo, che tutti chiamano “il prigioniero”, vive sotto il Kanun e all’inizio non rivela nemmeno alla ragazza il suo vero nome.
Non la fa accomodare in casa, l’intervista sarà concessa con lei all’esterno dell’immobile e lui all’interno, protetto da una tenda. I lettori scopriranno la sua vera identità soltanto verso la fine del libro, quando sarà loro chiaro anche che cosa rappresenti quella sorta di straccio appeso fuori dall’uscio.
Quella del prigioniero più che un’intervista è una sorta di confessione, che parte dal 1992, anno in cui, mentre sta giocando nel cortile di casa, scompare la piccola Nina. L’incubo di ogni madre, che spinge i genitori a cercarla ovunque senza mai rassegnarsi. La bambina risulta introvabile, l’angoscia resta, ma rimane anche la speranza che prima o poi la bimba farà ritorno tra le mura domestiche.
Nina ha un fratello maggiore, Uksan, che ha un amico fidato, il giovane Samir, dal padre piuttosto violento. L’uomo, di nome Zek, ogni volta che torna a casa ubriaco picchia in maniera sistematica la moglie, che subisce passivamente le sue percosse.
Tre anni dopo la scomparsa di Nina, il padre di Uksan (non sto a dirvi il motivo, se leggerete il libro lo scoprirete da soli) uccide Zek e finisce in carcere.
Si è innescato il Kanun, sangue chiama sangue.
L’amore materno si insinua tra le righe del romanzo, fa capolino più volte da entrambe le parti delle famiglie chiamate in causa.
Viene sempre zittito dalla violenza, dal dovere di lavare l’onta con il sangue. Ma riemerge tra le pagine del libro, insieme a un forte sentimento di amicizia che si trascina appresso un amore incompreso.
Il libro di Ermal Meta lascia il segno. Ci spiega come ci siano valori che non possano essere traditi nemmeno se la famiglia ci spinge a compiere un misfatto.
Ci introduce in un dolore profondo, in comportamenti che ci sembrano barbarie ma fanno parte di determinate culture.
La vicenda pone Lara, durante il suo viaggio di rientro in Italia a missione compiuta, dinnanzi a un bivio. Vale la pena trasformare un racconto vorticoso di sentimenti in un’intervista?
O è meglio gettare le tante pagine intrise di storia e di sangue al vento, lasciandole inghiottire dai flutti del mare, conservandone il ricordo soltanto nella propria memoria e in quella di chi le ha vissute?
La motivazione di Lara alla fine passa in secondo piano, cedendo il passo ad una serie di domande senza risposte.
A me invece, questo volume ha permesso di scoprire la profondità di animo di Ermal Meta: che canti o scriva, trovo che meriti un applauso per la capacità di arrivare dritto al cuore di chi lo ascolta o lo legge.
Roberto Saviano non mi è mai stato molto simpatico. Quando lo vedo cambio canale, non sopporto il suo modo di parlare senza guardare l’obiettivo, alzando gli occhi al cielo.
Questo mio pregiudizio, tuttavia, non ha alcun fondamento particolare: è una sensazione a pelle. Non ho mai avuto modo di ascoltarlo dal vivo, di incontrarlo o confrontarmi con lui per potermi ricredere su ciò che la sua vista mi scatena.
L’occasione per rivalutarlo, tuttavia, me l’ha offerta la sua ultima pubblicazione, “L’amore mio non muore”, edito da Einaudi. Un romanzo davvero profondo, ispirato da una storia vera e scritto in maniera impeccabile, che ripropone la drammatica vicenda di Rossella Casini, giovane studentessa universitaria di Firenze scomparsa il 22 febbraio del 1981.
Il suo corpo non è mai stato restituito ai genitori, che hanno lasciato questo mondo straziati dal dolore e senza giustizia.
La ragazza, residente nel capoluogo fiorentino con il padre Loredano e la madre Clara, ha avuto la sfortuna di innamorarsi perdutamente dell’uomo sbagliato, tale Francesco Frisina. originario di Palmi, in Calabria.
Il giovane, insieme ad alcuni ragazzi delle sue parti, aveva preso in affitto l’alloggio al piano terra dello stabile fiorentino in cui Rossella viveva con la famiglia, ufficialmente per frequentare l’Università.
Due chiacchiere, l’offerta di un caffè e Rossella è subito rimasta stregata da quel ragazzo, che ha poi voluto far conoscere ai suoi familiari.
Ma se Francesco di Rossella sapeva praticamente tutto, in senso opposto non c’era altrettanta trasparenza. Rossella chiedeva all’amato notizie dei suoi familiari, voleva conoscerli, capire dove vivessero, di cosa si occupassero.
Francesco, nel frattempo, aveva disobbedito all’ordine della famiglia di rientrare a Palmi, in Calabria, insieme ai suoi amici. Si era invece trattenuto a Firenze per amore e, solo dopo pressanti insistenze di Rossella, si era convinto a scendere in meridione insieme ai genitori e alla nonna della ragazza.
In quel breve soggiorno al sud, tuttavia, Rossella aveva ben presto compreso cosa si nascondesse dietro la reticenza dell’amato nel farle conoscere la realtà in cui era cresciuto.
Non si trattava solo di uliveti, vigne e coltivazioni. In quelle terre cresceva rigogliosa anche la mafia, con le sue potenti ramificazioni. Estensioni che accarezzavano anche i Frisina, convinti di essere al sicuro ma in realtà coinvolti nella faida tra due famiglie avverse, i Gallico e i Condello, in quanto posti sotto la tutela di una delle due.
Nella sanguinosa violenza che dilaga in quegli ambienti, Rossella ben presto viene vista come un corpo estraneo. La chiamano “la straniera” sia in paese che in famiglia. E l’amicizia che tenta di stringere con Cettina, la sorella del suo amato, è in realtà tale solo all’apparenza.
Rossella, dopo essere scappata dalla piana di Gioia Tauro con la famiglia senza spiegare ai suoi congiunti il vero motivo della fuga, decide di farvi ritorno in seguito.
Non riesce infatti a privarsi dell’amore di Francesco e così cerca di integrarsi nella sua famiglia. Coltiva i campi con loro e crede di essere riuscita nel suo intento.
Ma quando il padre del suo amato viene ucciso in un agguato in campagna dinnanzi agli occhi della moglie, la giovane capisce che le ‘ndrine respirano la sua stessa aria e non è più d’accordo a stare in silenzio.
Intanto i suoi genitori premono per riaverla a Firenze. Sono ormai 6 mesi che non la vedono e la sentono solo per telefono, le chiedono di rientrare.
Rossella si convince a farlo per iscriversi all’Università di Roma, ma proprio il giorno della sua partenza Francesco cade in un agguato sotto i colpi di fuoco nemici e la sua sopravvivenza è a rischio. Solo un miracolo potrebbe salvarlo. Trasferito all’ospedale di Firenze, Francesco si riprende e Rossella lo convince a denunciare tutto quello che sa, per ricostruire insieme a lei una nuova vita lontana dalla mafia.
Francesco accetta a malincuore ma poi ritratta. La “straniera”, la donna del nord che lo ha così snaturato viene presa di mira dalla famiglia di Francesco, che la offre ai criminali come vittima sacrificale, mandandola a parlare con il capo dei Condello. In realtà Rossella non morirà per mano sua, ma di emissari dei Gallico.
Il libro ci offre tre possibili epiloghi della vicenda, solo uno con esito positivo ma piuttosto impensabile.
Rossella scompare nel nulla, vittima di mani insanguinate, della sua troppa onestà e di una fiducia incrollabile in quell’amore che, come dice il titolo del libro, non muore, ma è stato regalato alla persona sbagliata.
Un sentimento puro come lo era lei, troppo fiduciosa da pensare che, a volte, d’amore si possa anche morire.
Un sentimento che Saviano ha espresso molto bene, dedicando la sua opera proprio a Rossella, suo malgrado vittima di un amore ostinato, vero, puro ma non abbastanza forte da avere la meglio sulla violenza e l’inganno.
Saviano ha regalato a tutti noi noi lettori un crudo ma profondo spaccato di quella vicenda e, a me in particolare, la scoperta che si può sempre cambiare idea su qualcuno che a prima vista non ci piace affatto.
Indistintamente, tutti mi sono piaciuti, uno più dell'altro, Per questo, ingenuamente pensavo che anche l'ultima fatica dell'autore, il romanzo "La catastrofica visita allo zoo", edito da La Nave di Teseo come tutti i precedenti, mi avrebbe piacevolmente impressionata.
Tra l'altro, è stato pubblicato nel mese di marzo ma figura già in cima alle classifiche dei libri più venduti di questo periodo. Anche se, ora, mi viene il dubbio che capitanare la graduatoria possa semplicemente voler dire che molti abbiano comprato il libro. Non che sia piaciuto a tutti gli acquirenti.
Io sono andata sul sicuro, memore delle precedenti esperienze, Ma, anche se avessi letto la recensione che ho poi trovato in rete una volta conclusa la lettura, mi sarei lasciata illudere. La definizione del libro è infatti quella di "un romanzo avvincente e sorprendente, capace di mescolare suspense, ironia e riflessione".
Per quanto concerne l'ironia, è vero: è frequente. Ma si tratta di un'ironia piuttosto puerile. Io ho sorriso soltanto verso la fine, giunta al capitolo della recita teatrale, ma non mi sono certamente sganasciata dalle risate. Invece, della suspense, a mio avviso, non c'è nemmeno l'ombra.
Perlomeno, la spasmodica ricerca di un colpevole non ha nulla a che vedere con i fiumi di adrenalina che avevano caratterizzato le precedenti pubblicazioni dello scrittore svizzero. Infine, riguardo agli spunti di riflessione, il volume mi ha offerto gli stessi spunti che avrei trovato ascoltando i discorsi di altri viaggiatori su un qualsiasi mezzo di trasporto oppure sfogliando le pagine di un quotidiano.
In chiusura, Dicker spiega di aver voluto scrivere un libro che fosse alla portata di tutti, dal bambino di 7 anni al centenario. Lo ha fatto per invogliare alla lettura tante persone che invece vede sprecare il loro tempo correndo dietro alle immagini che scorrono sugli smartphone. Ho una figlioccia dodicenne e due genitori che hanno superato la soglia degli 80 anni, ma ci sono tanti libri migliori dei quali consiglierei loro la lettura, non il suo.
La mia impressione invece è che, dopo tanti volumi all'insegna del giallo, a Dicker sia stato chiesto di cimentarsi in qualcosa di insolito, per stupire la platea. Ha accettato una sfida che non era nelle sue corde, scrivendo un libro che ho trovato esageratamente infantile e non certo per l'età dei protagonisti.
Tutto ruota intorno ad una classe di bambini "speciali", che frequentano una classe "speciale", istruiti dalla loro maestra, la signorina Jennings. Sono collocati in una sede vicina ad una scuola di alunni "normali".
Gli speciali sono soltanto 6: 5 maschi e Joséphine, unica femmina, che è la voce narrante del libro. Joséphine, ormai adulta, racconta quanto realmente accaduto durante la visita allo zoo di molti anni prima, una mattina di dicembre.
Lo fa partendo da un episodio catastrofico quanto quella gita: l'allagamento della scuola degli speciali, scoperto un lunedì mattina.
Tra battibecchi genitoriali, incomprensioni e termini che ai bambini sono praticamente sconosciuti, i piccoli si calano nel ruolo di investigatori per scoprire chi abbia reso inagibile la loro classe lasciando aperti tutti i rubinetti. Trovano una valida compagna di indagine nella nonna di uno di loro, escludendo via via i potenziali sospetti.
Nel romanzo, che si legge rapidamente perché ha poco più di 20 capitoli, ciascuno di poche pagine, si parla anche di democrazia e di rispetto delle idee del prossimo, Credo di esercitare il mio democratico diritto di critica mettendo il pollice verso su questo libro, esattamente come ho quasi osannato tutte le altre opere dell'autore che meritavano il mio giudizio positivo.
Come si dice, non tutti i gusti sono alla menta, quindi sicuramente a qualcuno questo libro piacerà. E io sarò contenta per lui/lei, che avrà investito bene il suo tempo ed il suo denaro.
Non so se, come gli altri romanzi di Dicker, anche questo sarà tradotto in 40 lingue.
Tuttavia, siccome l'autore è svizzero ma nella versione nostrana la traduzione è opera di una professionista italiana, lancio un appello. Se il testo deve essere letto anche da bambini che hanno tutto da imparare, cerchiamo di offrire loro, oltre a suspense, ironia e riflessione, anche le basi della corretta grammatica italiana.
A pagina 24 ho infatti riscontrato un madornale errore, che purtroppo si sta diffondendo rapidamente sulla carta stampata. Lo leggo spesso e viaggia a braccetto con un altro obbrobrio: apposto scritto invece di "a posto".
Chiariamo una volta per tutte: a fianco, vuol dire a lato di. Affianco, invece, è il participio passato del verbo affiancare. Affianco una persona in auto, ma se cammino a lato di qualcuno, gli sono a fianco (al limite di fianco)
E la scuola degli speciali si trova a fianco del parco, non certo affianco, come è scritto.
Altrimenti, ad essere catastrofica, non è sola la visita allo zoo, ma anche la traduzione del libro.
Un secondo appello, invece, va all'amato Dicker. Che si rimetta subito al lavoro, per regalarci un'altra avvincente vicenda che abbia lo stesso stile narrativo delle precedenti.
Uno scivolone può succedere a chiunque e glielo si perdona, ci mancherebbe. A patto che non ripeta l'errore e torni ad essere quel Joel Dicker che abbiamo conosciuto in passato.
Non so perché: eppure avevo sentito parlare a lungo del suo primo successo editoriale, intitolato “Io uccido”, inserito a pieno titolo nei best sellers, data la vendita di oltre 5 milioni di copie.
Mi ero ripromessa di acquistarlo. Poi, infatuata da altre centinaia di titoli accattivanti pubblicati nel frattempo, l’avevo relegato nella lista dei desideri senza darci più di tanto peso.
Sono passati oltre 20 anni dalla sua prima edizione, risalente al 2002 per Baldini & Castoldi e soltanto recentemente mi sono lasciata conquistare da questo fantastico thriller noir, complice anche il fatto che mia cugina ne custodisse una copia nella sua libreria.
Ambientato nel Principato di Monaco, “Io uccido” vede un incredibile dispiego di forze dell’ordine, impegnate a dare la caccia ad un sanguinario assassino. Un killer che si prende beffa di loro disseminando indizi preceduti, ad ogni omicidio, da una telefonata delirante in diretta a Jean-Loup Verdier, conduttore di una popolare trasmissione di Radio Monte Carlo.
Il primo annuncio suona quasi come uno scherzo. Tuttavia, l’indomani, su una barca vengono rinvenuti i primi due cadaveri: si tratta di un pilota campione di Formula 1 e della sua compagna, una campionessa di scacchi. Tutti e due sono stati assassinati e i loro volti sono stati asportati, quali macabri trofei dell’avvenuto scempio.
Indagano sull’accaduto l’agente speciale dell’FBI Frank Ottobre, temporaneamente in congedo dopo il suicidio della moglie e il commissario di Polizia Nicolas Hulot. Insieme a loro, un team di uomini in divisa supportati da un ragazzo autistico, Pierrot, mascotte della radio dotato di un’incredibile memoria musicale. Questo suo talento si rivelerà molto utile per dipanare la matassa, fornendo preziose indicazioni interpretative per quanto concerne gli indizi che volutamente l’assassino fornisce in radio.
Sembra quasi che l’omicida voglia essere fermato, ma acciuffarlo non è così semplice.
Soprattutto, la trama è costruita quasi si trattasse di una sorta di scatola cinese: ogni porta che si apre presenta al lettore un panorama differente. Vengono aggiunti personaggi, le ambientazioni degli omicidi sono diverse e, man mano che cresce la suspence, aumenta anche il tifo del lettore affinché Frank Ottobre riesca a individuare il colpevole.
A complicare la vicenda, che getta nel panico un luogo dove fino a quel momento non era mai successo nulla di tanto atroce, è il fatto che le vittime non abbiano prerogative comuni fra di loro. Mentre le indagini proseguono, il numero dei delitti aumenta, così come la pressione nei confronti di Frank Ottobre.
Riuscirà il nostro eroe a individuare il colpevole? Lo scopriremo quasi 700 pagine e numerosi altri omicidi dopo, ma l’entusiasmo per la risoluzione del caso e lo stupore nell’apprendere l’identità dell’omicida confermeranno la spettacolare vena narrativa di Faletti.
Non sempre la top ten del panorama letterario incontra i miei gusti. In questo caso, addirittura, ci sono voluti oltre 20 anni prima che potessi confermare che il numero di copie del libro vendute fosse la testimonianza di un vero talento letterario.
Come ho già detto altre volte, i libri non hanno scadenza e “Io uccido” ne è la prova.
Confesso che ora sono curiosa di leggere altri titoli dello stesso autore, magari senza attendere troppo a lungo. Devo infatti verificare se al compianto Faletti calzassero a pennello sia il noto “giumbotto” del Drive In, che il premio riconosciuto dalla critica a Sanremo 1994 (dove giunse secondo con la canzone Signor Tenente) ma anche gli applausi di un incredibile numero di lettori.
Sugli altri titoli non posso ancora esprimermi, ma di certo posso affermare che “Io uccido” li meriti tutti.
Forse, se vi cito il nome e cognome della madre di Caroline, ovvero Gisèle Pelicot, capirete rapidamente di chi si stia parlando. Caroline è la figlia della donna francese il cui caso ha indignato il mondo intero. Violentata per almeno dieci anni dal marito Dominique, che la stordiva con cocktail di farmaci per annientarla completamente e lasciare che uomini perfettamente sconosciuti, reclutati in rete, abusassero di lei. Dominique non lo faceva per soldi, ma per puro voyeurismo.
Nessuno dei familiari ha mai collegato le amnesie, la stanchezza e i vari malesseri di Gisèle all'abuso di farmaci di cui tutti, inclusa la vittima, erano completamente all'oscuro.
Se Dominique, nel novembre 2020, non fosse stato sorpreso in un supermercato francese a filmare di nascosto sotto le gonne di alcune clienti, chissà quanto a lungo i suoi reati sarebbero stati impuniti. Invece, è bastata una denuncia e la verifica da parte delle autorità del suo cellulare per scoperchiare il vaso di Pandora dal quale sono iniziate a diffondersi migliaia di immagini e video disgustosi. Scatti e riprese dietro ai quali c'era un'unica firma: quella di Dominique, insospettabile padre e marito che con Gisèle condivideva da oltre 50 anni una vita che a tutti sembrava apparentemente normale.
Forse il termine raccapricciante che ho utilizzato all'inizio non è abbastanza esaustivo per rendere l'idea della situazione in cui la famiglia di Gisèle è stata catapultata. Comunque si abbina alla perfezione all'aggettivo stomachevole: tutta la vicenda è un teatrino degli orrori in cui Dominique, come un perfido Mangiafuoco, manovra le sue marionette.
E allora come si fa a non rinnegare l'esistenza di un marito e di un padre che si è macchiato di simili reati? Certamente è inevitabile trasformare un amore coniugale e filiale in un forte odio, animato da rancore e disgusto. Dominique è stato fermato, ma le sue malefatte non sono terminate. Dal carcere dove è rinchiuso non cessa di provocare dolore, inviando alla moglie lettere dal chiaro intento manipolatorio, in cui si dipinge come una vittima che, sono parole sue, "continua ad amare la donna della mia vita".
Ci vuole coraggio e una certa faccia tosta per definire amore una simile perversione, ma è palese che quest'uomo sia profondamente malato. E mentre Gisèle cerca in qualche modo di giustificare il marito, Caroline, incredula dinnanzi alle immagini che ritraggono la madre inerme come una bambola inanimata, matura una ferma decisione: prendere le distanze da quell'uomo che sta distruggendo la famiglia.
La rimozione è netta e perentoria: innanzitutto Caroline cambia il nome del figlio Tom Jean Dominique in Tom Jean David. Fin da subito annulla ogni tipo di contatto fra lei e il padre incarcerato, lottando fino allo stremo delle forze per garantire a sua madre un processo equo che le consenta di ricostruirsi una vita.
Caroline comprende che quanto accaduto la sta allontanando sempre più da Gisèle, ma dopo un forte esaurimento nervoso (chi manterrebbe la sanità mentale se gli accadesse un evento del genere?) decide che, di quanto successo, non ci sia nulla per cui lei, sua madre e i suoi fratelli debbano vergognarsi.
Madre e figlia decidono di rendere pubblico il processo, svoltosi a porte aperte da fine 2024. Circa 4 mesi di udienze in cui gli organi di informazione sono sempre stati i benvenuti: sono oltre 50 gli uomini, di ogni età e stato sociale, imputati di aver partecipato agli abusi, avvenuti in più ambienti. Anche a casa di Caroline, mentre lei si trovava in vacanza con marito e figlio.
"Sento il peso schiacciante di un doppio fardello - dichiara Caroline - sono la figlia della vittima ma anche del suo carnefice". E in quello che è una sorta di diario (che inizia con il giorno della scoperta della serie di reati di cui il suo congiunto si è macchiato fino ad arrivare alla fine del processo con il verdetto di condanna), Caroline ci conduce quasi per mano sulla soglia dell'abisso che le si è aperto sotto i piedi.
Un baratro nel quale precipita giorno dopo giorno, aggrappandosi ai ricordi del padre perfetto che lei pensava di avere: un uomo che gioiva per i successi dei suoi figli, che sembrava un nonno invidiabile, che si è preso amorevolmente cura dei suoi figli. Una figura che lei ha amato tanto, fino al giorno in cui la sua mostruosità si è manifestata.
Non deve essere facile affrontare una situazione del genere. Men che meno se convivi con il dubbio che tuo padre abbia abusato anche di te, dopo che gli inquirenti ti hanno mostrato immagini in cui riposi in una posizione inconsueta e sei immortalata in un sonno profondo decisamente anomalo, dato che abitualmente lo hai molto leggero.
E così il tarlo inizia ad insinuarsi nella sua mente: avrà drogato anche me? Avrà abusato del mio corpo o lo avrà ceduto ad altri per soddisfare la sua mente malata?
Caroline ferma su carta i suoi pensieri, alternandoli con lettere immaginarie, mai consegnate, in cui scrive al padre esprimendo le sue convinzioni e perplessità. E la visibilità mediatica che lei e la madre ottengono non è certo dettata da fini scandalistici o per manie di protagonismo, bensì per far sentire le vittime ascoltate, credute e supportate.
Perché esistono padri di cui andare orgogliosi, altri di cui vergognarsi. Ed essere figli che appartengono ad una o all'altra categoria non è questione di scelte, ma solo di fortuna.
Intensa, appassionata, magnifica. Questi tre aggettivi rendono bene l’idea di come l'attrice, speaker, educatrice teatrale e doppiatrice Maria Stella Sturiale abbia interpretato, sabato scorso sul palco del cinema teatro Borgo Nuovo di Rivoli, lo spettacolo “Qualcosa di lei”, scritto da Rosa A.Menduni e Roberto De Giorgi, magistralmente diretto da Tiziana Sensi.
Dopo aver calcato il palcoscenico torinese del teatro Vittoria ed in attesa di approdare su nuove assi, Maria Stella ha proposto alla platea rivolese il monologo nel quale interpreta un caleidoscopio di personaggi, passando con facilità estrema dal ruolo di Claudia a quello di Francesco, senza dimenticare Romina, Viviana e altre figure che hanno comunque un loro perché nella storia.
La trama ruota intorno ad un rapporto di coppia, ma non è affatto scontata: Claudia e Francesco si innamorano, vengono travolti da un’incontenibile passione fisica e mentale. Ma, come spesso accade, passato l’entusiasmo iniziale affiorano piccoli screzi, che producono incontenibili lamentele e trasformano quello che fino a quel momento era tutto rosa in un grigio sempre più cupo.
Tutto prende avvio da un tatuaggio cancellato sul braccio di Francesco e da un nome di donna pronunciato dall’uomo nel sonno: Minni. Diminutivo di chi? E che ruolo ha avuto questa figura femminile nella vita di Francesco? Perché, nonostante la complicità che si è instaurata, lui non ne vuole parlare a Claudia?
Piccoli tarli si insinuano nella mente di Claudia e danno il via ad un moto perpetuo di dubbi, che sfociano inevitabilmente in aggressività, minando la storia a due.
Sarebbe comunque sbagliato pensare di assistere alla messa in scena della disfatta di un rapporto. In “Qualcosa di lei” c’è molto di più. Ci sono rabbia, rancore, aggressività, mescolati ad arte con tenerezza, emozione, sesso. Ci sono dubbi e certezze, allegria e cupezza. Soprattutto, c’è un altalenante cambio di scena tra finzione e realtà: inizialmente lo spettatore rimane spaesato, sembra quasi perdere il filo della trama.
Cosa c’è dietro a quell’incessante trillo telefonico? E quel continuo cambio d’abito di Claudia equivale forse allo spogliarsi di ogni inibizione tipico dell’inizio di ogni rapporto affettivo per poi rivestirsi al fine di proteggere il proprio corpo e la propria anima ferita?
Il teatro è una forma d’arte ed ognuno lo interpreta a piacimento: così come dinnanzi ad un quadro ciascuno percepisce sfumature diverse, anche dalla poltrona della platea le emozioni sono soggettive.
Innegabile, comunque, è che l’interpretazione scenica dell’attrice sia stata intensa, appassionata, magnifica, oltre che molto coinvolgente. Se capita dalle vostre parti, vi consiglio di non perdervi l’allestimento, ne vale davvero la pena.
Per essere sempre aggiornati sulle rappresentazioni teatrali, potete seguire Maria Stella sulla pagina Instagram della sua associazione culturale lariadelcontinente o contattarla via mail e telefonicamente: lariadelcontinente@gmail.com 3356173302.